Ereditare il paesaggio – Roma
FotoGrafia – 6° Festival internazionale di Roma (11)
A cura di Stefano Scipioni guide Dada.net – Supereva, Pubblicato il 09/04/2007
Museo dell’Ara Pacis
Gabriele Basilico, Olivo Barbieri, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte Guido Guidi, Mimmo Jodice, Massimo Vitali, Claudio Sabatino, Claudio Gobbi, Maurizio Montagna, Tancredi Mangano, Domingo Milella, Marco Campanini, Ricardo Francone, Franco Mascolo, Marco Trinca Colonel e Cosimo Pichierri, Stefano Snaidero, Alessandro Cimmino, Andrea Pertoldeo, Enrico Benvenuti, Salvatore Porcaro
Ereditare il paesaggio
A cura di Giovanna Calvenzi e Maddalena d’Alfonso.
Per la prima volta sette grandi fotografi che hanno contribuito a ridefinire i canoni della ricerca estetica sul paesaggio, si confrontano con i loro possibili “eredi”. La mostra è stata realizzata con il sostegno del Consiglio Nazionale degli Architetti, Pianificatori, Paesaggisti e Conservatori e con il supporto tecnico di Unifor.
La rilettura del paesaggio, ha rappresentato, fin dall’esperienza di «Viaggio in Italia», mostra e libro voluti e coordinati da Luigi Ghirri, Gianni Leone ed Enzo Velati nel 1984, uno degli aspetti più interessanti e innovativi della fotografia italiana. La generazione di autori cresciuti attorno a questa esperienza ha utilizzato la fotografia per interrogare e interrogarsi sui mutamenti che stavano avvenendo sul territorio. Le loro immagini hanno constatato la frantumazione del paesaggio, il proliferare delle architetture senza qualità e progetto, l’espandersi incontrollato delle città e creato una sintassi che non evidenziava la denuncia ma prendeva principalmente atto dei mutamenti in corso, di una realtà «quotidiana» e vicina in diretto rapporto con il loro essere fotografi e interpreti.
Foto ©Francesco Jodice – What-WE
Oggi il passaggio dalla prima alla seconda modernità ha messo in discussione definizione e riconoscibilità del paesaggio stesso. Una nuova generazione di fotografi si trova a dover fissare e interpretare il senso di quanto sta accadendo. In questo panorama ritrovare il paesaggio e documentarlo è in molti casi un’operazione concettuale il cui valore diventa più chiaro se messo in relazione con il solido lavoro di documentazione e interpretazione della generazione precedente.
Foto di ©Gabriele Basilico, Monaco
«Ereditare il paesaggio» vuole quindi essere «luogo» di confronto e di dialogo tra generazioni e linguaggi. Il progetto ha avuto inizio con l’invito di sette autori (Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramente, Guido Guidi, Mimmo Jodice e Massimo Vitali) che, con la continuità del loro lavoro, hanno contribuito a definire gli strumenti di una nuova ricerca sul paesaggio contaminando i confini tra arte, sociologia, urbanistica e fotografia. A ognuno di loro é stato chiesto di indicare due autori più giovani che sancissero una sorta di metaforico passaggio di testimone.Anche il frutto più amaro contiene zucchero.
Foto di ©Giovanni Chiaramonte, dopo un terremoto, Poggioreale, 1996
Gli autori hanno indicato
Olivo Barbieri: Tancredi Mangano e Maurizio Montagna;
Gabriele Basilico: Claudio Gobbi e Claudio Sabatino;
Vincenzo Castella: Alessandro Cimmino e Salvatore Porcaro;
Giovanni Chiaramonte: Ricardo Francone e Franco Mascolo;
Guido Guidi: Enrico Benvenuti e Andrea Pertoldeo;
Mimmo Jodice: Marco Trinca Colonel/Cosimo Pichierri e Stefano Snaidero;
Massimo Vitali: Marco Campanini e Domingo Milella.
Nella foto Ricardo Francone e Franco Mascolo
L’immagine come luogo
La fotografia di Walter Ricardo Francone si genera nell’esperienza dell’esilio e dell’erranza. Nato e cresciuto in Argentina da una famiglia di origine italiana, Francone, per ritrovare il proprio presente, ha dovuto compiere il cammino inverso a quello dei suoi avi, che avevano scelto il Nuovo Continente come luogo del proprio destino: la terra abbandonata in nome del futuro diventa per lui la terra desiderata del proprio futuro. Per Francone è quindi esperienza della vita quanto afferma Christian Norbert Schultz nel suo fondamentale libro Genius Loci: “ Quando Dio disse ad Adamo, sarai un fuggitivo e andrai vagando per la terra, mise l’uomo di fronte al più essenziale dei problemi, attraversare la soglia e riguadagnare il luogo perduto”. Nella dimensione contemporanea della globalizzazione, nell’epoca del mondo ridotto a immagine, ogni luogo è in realtà perduto, essendo divenuto solo immagine. In questa consapevolezza, la sequenza di Francone testimonia che solo l’immagine generata dalla personale coscienza può essere il luogo del nostro abitare.
Testo di Giovanni Chiaramonte
Foto di ©Walter Ricardo Francone, Visione Evidente
Conformazione degli Eventi
Genesi
Il luogo dell’incontro, il susseguirsi delle esperienze, complesse come un viaggio, per quanto riguarda il mio percorso, hanno come fulcro la Civica Scuola di Fotografia di Via Paravia, 31 a Milano. Se devo definire il tema dell’Eredità trattato in questo progetto non posso prescindere da quel corso serale, in cui l’indice della mia vocazione inizia con l’insegnamento di Giovanni Chiaramonte. Le mie necessità interiori in quella scuola si sono messe a fuoco come domande precise alle quali ho dovuto cominciare a rispondere. Tra studenti e insegnante si era creata una condivisione delle esperienze che man mano si apprendevano e che finalmente avevano creato un luogo dove si veniva a contatto con fotografi, libri, film dove era data la chiave dello sguardo, la nave di Cristoforo Colombo per scoprire nuovi mondi.
L’origine genealogica dell’immagine
La visione trasmessa del viaggio che da giovane mio nonno aveva affrontato oltre oceano, visione che raccontava ogni sera al capo della tavola dopo la cena, fumando una sigaretta con aria rilassata, come una delle cose più preziose della sua vita.
Lo sfogliare un’enorme enciclopedia universale di una mia cara zia, ancora troppo giovane per saper leggere, dove ricorreva tra le figure il disegno di un Uomo, che nella mia fantasia in lui racchiudeva il mistero di quei luoghi.
Luigi Ghirri con le Tracce di Pollicino, il suo viaggio nell’Atlante, l’emozione di scoprire insieme a queste figure che quei viaggi non erano scontati, che esse avevano gia segnato una volontà, quella di conoscere, la stessa scena dell’anziano signore che sfoglia il libro di August Sander nel film Il cielo sopra Berlino di Wim Wenders, raccontando la memoria di un Uomo e il Volto di un intero popolo.
Nel Racconto di un pellegrino russo – la ricerca mistica delle parole udite per caso nella santa messa “Pregare senza intermissione” – il protagonista intraprende un viaggio meraviglioso alla scoperta di una risposta alla sua domanda come fosse possibile pregare costantemente vivendo in un mondo cosi indaffarato; l’essere attenti può assegnarci dei compiti imprevedibili, come il dire il mondo è immagine e l’uomo abita poeticamente. La profonda serietà della preghiera di un pellegrino rispecchia in me fotografo il cercare in ogni fotografia l’avvicinarsi a questa poesia nascosta in ogni cosa.
Nella mostra del 25 gennaio 2001 a Milano dedicata a Cartier-Bresson c’era uno scritto che diceva: “fa bene alla salute contemplare i paesaggi di Giovanni Bellini, Hokusai, Poussin, Carot, Cezanne, Bonnard e tanti altri, e andarsene nella natura con una matita in mano.”
Ho in me le parole di Jack Kerouac nel romanzo La città e le metropoli, “La vita procede a Galloway come le stesse stagioni, attraverso le quali la vita pulsa in capricciose processioni, e salta e rimbalza, mentre i capricci dell’universo fiancheggiano i cieli senza fine.” Alzarsi al mattino, uscire di casa con la memoria salda di questi viaggiatori ti fa sentire Bene, e la giornata diventa una gran bella giornata.
Queste condivisioni mi hanno aperto a un’esperienza singolare che non posso definire totalmente in queste poche righe. Un signore che passeggiava mentre scattavo una fotografia, si fermò curioso e mi parlò dicendo che ogni cosa vive anche di luce propria e non possiamo darne il merito soltanto al Sole. Senza dire null’altro, sorridendo, se ne andò via.
di Walter Ricardo Francone […]
da il manifesto del 13 Aprile 2007
Prospettive fotografiche sulla città-collage
Alla mostra «Ereditare il paesaggio», in corso all’Ara Pacis di Roma, il rapporto problematico tra la fotografia come osservazione consapevole e come pratica diffusa di appropriazione simbolica: un atto di colonizzazione indiretta, una forma di addomesticamento dei luoghi Alla mostra romana il paesaggio torna a essere un genere artistico, al pari della natura morta o del nudo, piuttosto che una riflessione problematica sul rapporto fra visualità e territorio.
E la tensione etica che… Antonello Frongia,
Se si eccettuano alcuni casi notevoli – da Camille Silvy a Timothy O’Sullivan, da Vittorio Sella ad Ansel Adams – la fotografia di paesaggio è sempre stata fotografia del paesaggio umano. In quanto documenti, le fotografie hanno una particolare abilità nel registrare le tracce (anche implicite o contraddittorie) di strutture economiche, sociali e politiche che si depositano nell’ambiente. Da questo punto di vista, il patrimonio di immagini prodotte in Italia tra Otto e Novecento costituisce una fonte preziosa, in larga parte inesplorata, per comprendere i lenti processi di modernizzazione «dal basso» del paesaggio italiano che hanno preceduto l’industrializzazione e i manifesti del «modernismo» artistico d’inizio Novecento. Ma indirettamente la fotografia – un’arte «media» e «mediatrice», come diceva Bourdieu – è anche la testimonianza di pratiche diffuse di appropriazione simbolica: acquistare una cartolina, fotografare la località di villeggiatura, o persino impararare a riconoscere luoghi mai visti attraverso il libro scolastico, sono atti di colonizzazione di secondo livello, forme di addomesticamento dei luoghi a cui la fotografia ci ha abituati grazie alla sua progressiva riproduzione e diffusione popolare.
Dentro il «museo diffuso»
Il rapporto problematico tra questi due aspetti del «discorso» fotografico – la fotografia come osservazione consapevole delle trasformazioni e come pratica diffusa di appropriazione – sta al centro della mostra Ereditare il paesaggio, allestita al Museo dell’Ara Pacis di Roma con la cura di Giovanna Calvenzi e Maddalena d’Alfonso. Già dal titolo, la mostra si inserisce nel dibattito sulla sostenibilità dello sviluppo: soprattutto in Italia, ad essere posto a rischio non è solo l’ambiente naturale, ma il paesaggio come risorsa culturale, quello che Andrea Emiliani negli anni Settanta proponeva di considerare come un «museo diffuso». Non è un caso che nel 1987 lo stesso Emiliani abbia organizzato a Cesena (con Giordano Conti) una mostra sotto questo titolo, con fotografie della città e del territorio commissionate a Luigi Ghirri e Guido Guidi. La fotografia può avere un ruolo etico e persino politico nell’imparare a vedere la potenzialità dei paesaggi minori, non monumentali, persino vernacolari.
Ciò che colpisce nell’ideazione di Ereditare il paesaggio, tuttavia, è lo slittamento di questo livello di lettura del territorio dentro una storia più ristretta – e meno interessante – delle «scuole» che a partire dagli anni Ottanta si sono definite attorno ad alcuni «maestri» della fotografia italiana di paesaggio. Rinunciando a una scelta più argomentata, le curatrici hanno chiesto a sei fotografi inclusi nella storica mostra Viaggio in Italia (Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Mimmo Jodice) e a un autore della stessa generazione emerso più recentemente (Massimo Vitali) di indicare due giovani promesse del paesaggismo fotografico. A prendere il sopravvento è dunque una eredità stilistica piuttosto che tematica, resa graficamente nella mostra attraverso un abbozzo di albero genealogico che è una germinazione gerarchica. Ognuna delle sette stanze ideali del breve percorso espositivo riproduce il laboratorio del pittore rinascimentale, con le sue filiazioni estetiche. Anche per il numero relativamente esiguo di opere in mostra, il paesaggio torna a essere un genere artistico (al pari della natura morta o del nudo) piuttosto che una riflessione problematica attorno al rapporto tra visualità e territorio – una modalità tipicamente pittorica che nel corso di due secoli la fotografia aveva utilmente debellato.
L’ambiguità metodologica di Ereditare il paesaggio risponde a una paradossale crisi di crescita della fotografia italiana di ricerca, che allo sviluppo esponenziale di opportunità produttive (gallerie, musei, festival, libri) non sembra in grado di accompagnare il riconoscimento di una koinè o anche solo la responsabilità del dibattito. Contraddittoriamente, la tensione etica di una generazione che negli anni Ottanta aveva scelto una impostazione dialettica e uno stile «senza stile» viene tradita dal ritorno dell’«opera» e dell’«autore». In realtà proprio vent’anni fa due intellettuali della fotografia scomparsi prematuramente e rapidamente dimenticati nonostante la perseverante evocazione del loro fantasma – Luigi Ghirri e Paolo Costantini – avevano iniziato a riflettere sulla necessità di un aggiornamento della tradizione paesaggistica italiana nel nuovo ordine di quella che Immanuel Wallerstein definiva l’economia-mondo. Forse non è un caso che nel 1986 Ghirri parlasse di «rappresentazione dell’esterno» a margine di Esplorazioni nel paesaggio, una mostra che si proponeva di reinventare l’immagine di un luogo incredibilmente longevo (e tipicamente italiano) come la Via Emilia. Tre anni dopo, in un saggio per «Casabella» intitolato Sugli spazi: oltre il paesaggio, Paolo Costantini chiamava in causa il geologo Sorger – il protagonista di Lento ritorno a casa di Peter Handke – per costruire «una geografia di spazi reali e al tempo stesso immaginari, dove esterno e interno, veduta e visione vengono mescolati e amalgamati dall’insistenza di uno sguardo impassibile». Da prospettive differenti, Ghirri e Costantini sembravano proporre una rielaborazione operativa del concetto stesso di paesaggio, con largo anticipo rispetto al dibattito odierno tra urbanisti, sociologi, antropologi e filosofi che propongono formulazioni come «nonluoghi» (Marc Augé) e «terzo paesaggio» (Gilles Clément).
Quelli di Ghirri e Costantini non sono che spunti di riflessione, ma indicano con chiarezza le possibilità di un contributo critico della fotografia alla cultura italiana della modernizzazione tra Otto e Novecento. Se già negli anni Settanta lo storico americano John Kouwenhoven poteva considerare con un certo ottimismo pop il fatto che «viviamo in un mondo di istantanee», nel nostro paese l’evoluzione dei modelli di rappresentazione visiva del paesaggio ha subito cammini più tortuosi che attendono di essere studiati. In una nazione che ha costruito la propria identità sull’unificazione della parola, il percorso di questa evoluzione è forse più evidente nel campo letterario. «Certi colloqui remoti si rapprendono e concretano nel tempo in figure naturali. Queste figure io non le scelgo: sanno esse sorgere, trovarsi sulla mia strada al momento giusto, quando meno ci penso»: negli anni Quaranta Cesare Pavese poteva restituire l’esperienza di un paesaggio minore al livello dell’epifania soggettiva, portata fino alla mitopoiesi. Solo oggi uno scrittore come Vitaliano Trevisan può restituire la pratica del camminare pensante non solo in ma con un ambiente urbano, in un resoconto tanto asciutto quanto nevrotico (e per questo attuale) dei «quindicimila passi» necessari per raggiungere l’ufficio dell’avvocato in una cittadina di provincia.
Geometrie dello spazio visivo
Per la fotografia – una tecnica di osservazione fortemente descrittiva e potenzialmente democratica, ma condizionata dal suo fondamento prospettivista – il resoconto dell’esperienza quotidiana nell’ambiente contemporaneo è un compito contraddittorio. Non a caso la tradizione del lavoro fotografico ha prodotto, sedimentandosi nelle categorie critiche, una antinomia tra generi come il paesaggismo e il reportage: da una parte lo studio meditativo del campo visivo, dall’altra la registrazione istantanea dell’evento. Tuttavia è proprio la struttura formale della prospettiva – apparentemente contraddetta dalla visione grandangolare del reporter o esasperata nella composizione del paesaggista – a costruire forme di ordine visivo entro la superficie delimitata dal quadro fotografico. L’inconscio fotografico di cui parlava Franco Vaccari opera pressoché automaticamente come ordinamento, la sua progressione matematica di proporzioni come modello di progresso lineare, una geometria dello spazio visivo che esclude gli accidenti rispetto alla centralità dell’osservatore.
Queste forme di ordinamento fotografico dello spazio assumono un rilievo particolare nella storia della città italiana. Se negli Stati Uniti la tecnica fotografica ha goduto nel Novecento di un rapporto privilegiato (persino incestuoso, secondo il fotografo americano Lewis Baltz) con l’estetica della macchina e l’immagine monumentale della fabbrica, nel nostro paese questo tipo di rapporto si è sviluppato con il tessuto urbano e la città del buongoverno. Dominato dalla tradizione degli Alinari (una azienda privata nata a metà Ottocento che ancora oggi domina la storiografia italiana sotto mentite spoglie), il vedutismo fotografico italiano si limita spesso a ripetere uno schema geometrico della rappresentazione che è anche una implicita lettura storica della trasformazione: un paesaggio cresciuto per accumulazioni, prima gradualmente e poi (come nella descrizione della bancarotta in un personaggio di Hemingway) improvvisamente. Per converso, si potrebbe sostenere che nel lungo periodo persino le cronache fotografiche della periferia italiana del dopoguerra – dalla Milano anni Cinquanta di Ugo Mulas alle metropoli inquinate degli anni Settanta – abbiano finito per essere ricomprese entro questa formalizzazione stereotipata, costruendo l’immagine di una anticittà relegata al fondo di una prospettiva mentale sostanzialmente immutabile.
In realtà il paesaggio della modernità – e soprattutto la società che lo determina – si frammenta e si ricombina in una collage city senza prospettiva e con poche aspettative. Grandi processi come la deindustrializzazione cancellano luoghi della memoria collettiva, dalla riconversione della Bovisa alla dismissione di Bagnoli. Ma la complessità del paesaggio contemporaneo italiano è un fatto forse più profondo delle trasformazioni fisiche portate dai nuovi processi economici.
Una storia collettiva
Come ha scritto Alessandro Fontana a proposito della «scena» italiana (in un capitolo ancora molto stimolante dell’Enciclopedia Einaudi), ciò che vediamo non è solo il prodotto di un accumulo e di una sedimentazione più o meno fatale: è anche l’esito di una «sottrazione, differenza e deiezione». Il paesaggio è la scena di una censura: un sistema di tracce di ciò che non vi ha trovato luogo, o che avendolo trovato ne è stato espulso. Gli stessi cittadini, «in questa città, non (sono) più i metafisici dell’utopia, né gli eroi dell’opera, non contano se non come Pulcinella o maschere della commedia». La fotografia ha spesso contribuito, anche in buona fede, a queste forme di elisione e di invisibilità.
Per render conto criticamente di questa identità e dei processi che la determinano, la fotografia di paesaggio richiede anche in Italia forme di adeguamento dei linguaggi, dei progetti, delle istituzioni. Al grande sforzo di conservazione degli archivi storici condotto in Italia negli ultimi decenni non ha corrisposto un utilizzo della fotografia come fonte per ricostruire anche attraverso il paesaggio la storia della nostra modernità. Ma è il lavoro del fotografo – questo cittadino ottocentesco che continua a percorrere gli spazi riportandone osservazioni minute e circostanziate – a poterci ancora permettere di scoprire e comprendere, laddove esista, quello che la storica Dolores Hayden chiama «il potere del luogo», il valore politico di una memoria della cittadinanza che non è il localismo not in my backyard, ma la possibilità di vedere «i paesaggi urbani come storia collettiva». Il rischio opposto è quello di un trinceramento della cultura fotografica nella strenua difesa di un privilegiato «occhio del fotografo» silenzioso ed ermetico.
A Roma scatta la “Questione italiana” 5 aprile 2007
di Giovanna Mancini, il sole 24ore
Quest’anno sarà dedicato al nostro Paese, ai fotografi italiani contemporanei e del passato, nonché alla storia e al paesaggio d’Italia ritratti da artisti nazionali e stranieri. Giunto alla sua sesta edizione, il Festival internazionale di Roma FotoGrafia (in programma dal 6 aprile al 3 giugno) punta lo sguardo sulla “Questione italiana”, come recita il suo sottotitolo, e propone una riflessione sulla situazione di quest’arte nel nostro Paese.
Da un lato si tratta di una sorta di grande censimento, che parte dalle testimonianze d’epoca (ad esempio nella selezione di immagini in arrivo dalla Fondazione Sandretto Re Rebaudengo e presentate al Museo Andersen) e arriva fino ai talenti emergenti dei giorni nostri. Dall’altro vuole essere l’occasione per un dibattito sulle carenze, di spazi e di risorse, che ancora penalizzano la fotografia italiana, in un momento storico in cui, oltre tutto, si riducono per gli autori anche gli spazi sulla carta stampata.
Quello con FotoGrafia è ormai un appuntamento consolidato, che coinvolge tutta la città e che quest’anno presenterà lavori di 500 autori in 160 mostre, tra musei, gallerie, librerie, centri sociali e culturali. Il programma (ricchissimo, impossibile darne conto qui in modo esaustivo, si veda piuttosto il sito Internet www.fotografiafestival.it) si divide in una sezione di mostre principali, ospitate nei maggiori musei della città, e una sezione – il cosiddetto Circuito – di eventi espositivi allestiti all’interno di gallerie e spazi privati.
Italia protagonista, dunque, con i suoi fotografi e la sua storia, come dimostra, ad esempio, la mostra “E’ il ‘77”, a cura di Marco Delogu e Giovanna Calvenzi, ospitata al Museo di Trastevere fino al 13 maggio, che raccoglie le immagini di quell’epoca di speranze e insieme di violenza scattate da Tano D’Amico (tra i più grandi testimoni di quel movimento). Fino al 29 aprile sarà allestita anche, sullo stesso tema, “1977: i movimenti”, con scatti di Toni Thorimbert, Cesare Colombo, Gabriele Basilico, Uliano Lucas, Dino Fracchia, ma anche della gente comune.
Sempre a Trastevere, segnaliamo la collettiva “Altri mondi”, che riunisce il lavoro di tre generazioni di fotografi romani (di nascita o di adozione), impegnati in reportage spesso in terre lontane. Ai già affermati Roberto Koch, Fabio Ponzio, Angelo Buretta, Francesco Zizola, Riccardo Venturi e Paolo Pellegrin, si aggiungono tre giovani autori, Lorenzo Castore, Massimo Berruti e Davide Monteleone, vincitori, gli ultimi due, del World Press Photo 2007.
Di paesaggi (naturali e urbani, interiori ed esteriori) parlano invece altre due importanti mostre presentate nel sistema dei musei. “Ereditare il paesaggio”, curata da Maddalena D’Alfonso e Giovanna Calvenzi, mette a confronto gli scatti di fotografi che hanno ritratto l’Italia e i suoi mutamenti negli ultimi vent’anni (Olivo Barbieri, Gabriele Basilico, Vincenzo Castella, Giovanni Chiaramonte, Guido Guidi, Mimmo Jodice e Massimo Vitali) e quelli dei giovani autori che in qualche modo ne sono allievi ed eredi. Il paesaggio di Paolo Ventura in “Viaggio nella memoria” (Villa Borghese), è invece dedicato alle città italiane degli anni Cinquanta.
E ancora paesaggi sono al centro dell’attenzione di un gruppo di autori ospitati alla Stazione Termini: Franco Mapelli riflette sulla riforma agraria, mentre Gianni Galassi documenta i cambiamenti post-industriali nelle città italiane.
Infine, segnaliamo alcuni degli appuntamenti che inaugureranno nelle prossime settimane. Tra questi, le foto vincitrici del World Press Photo 2007, dal 5 al 27 maggio al Museo di Roma in Trastevere, “Iran Felix” di Paolo Woods e “Paesaggi con figure” di Ivo Saglietti (entrambi dal 16 maggio al 10 giugno a Trastevere), e “Nature in bianco e nero” di Fausto Donnini (dal 23 maggio al 3 giugno all’Acta International”.
“FotoGrafia – Festival Internazionale di Roma”, dal 6 aprile al 3 giugno. Per informazioni: www.fotografiafestival.it.