Le ragioni di un artista
Cosa vi è nell’arte a cui l’uomo non riesce a rinunciare?
Sto da anni sperimentando, a mie spese, un sintomo di sofferenza che non riesco a fermare, soprattutto a discapito della mia stessa esistenza. Sembra di cercare nel mondo una qualche purezza, qualcosa che mi faccia sentire soddisfatto di essere vivo, di credere, infine, e di pretendere di fare qualcosa di veramente buono. Una bella pretesa.
Non so dove sia la frattura che rende tutto così sofferto. Certo è che, malgrado io provi a cambiare strada, facendo inversioni di rotta, alla fine tutto il mio essere mi riporta sempre alla stessa sofferenza. Una sofferenza che reclama con forza il mio impegno su ciò che vedo realmente, su ciò che sento.
Immaginate una specie di risveglio a secchiate d’acqua fredda. Schiaffi in faccia senza comprensione. Ti alzi, seduto sul bordo del letto, senza capire né dove sei né dove devi andare. Vi è soltanto una certezza: di essere parzialmente sveglio, e di dover fare qualcosa, con l’incredibile consapevolezza che quel qualcosa sia importante. Presto ti accorgi che quell’importanza, nel fallimento di ciò che descrivi e gridi come un’opera, rimane sorda. Un manifesto che circonda soltanto te stesso.
Non riesco a imbrogliare, né a mentire, di fronte a queste certezze che vivono in me. Impulsi appressi da sentimenti che ti attraversano come se a parlare fosse lo stesso Dio. In primis sono terrificanti. Una visione dell’umano che, come una condanna, riesco a vedere senza maschera, al pari delle bestie. Talmente disumano da non poterne descrivere il contenuto. Non per mancanza d’immaginazione, ma perché non vi è esistenza storica, né congettura o descrizione, che possano rappresentare una tale barbarie — almeno che io ne abbia conoscenza. Tranne un episodio, durante un sonno profondo.
Per l’esattezza un incubo:
Stavo facendo un lavoro con un caro amico fotografo.
Ci trovavamo in un’abbazia medievale, dove sacerdoti con lunghe tuniche marrone scuro ci mostrano immagini incise su pelli di animale. Rappresentavano figure diaboliche.
Una in particolare mi agitò al punto da scattare con ira, gridando al sacerdote che non doveva farmi vedere quelle immagini: sarebbero rimaste impresse per sempre nella mia mente, impedendomi di ritrovare un sonno tranquillo.
Erano immagini terribili, e nel maneggiarle diventavano vive.
Una pelle, stretta e allungata, mostrava un Cristo inciso, e ai suoi piedi — conficcata nella croce — la testa di un demone. A vederlo non sembrava affatto morto.
Mentre continuavo a replicare col sacerdote, mi misi in ginocchio e, con forza, arrotolai tutte quelle immagini dal basso verso l’alto. Ne uscì un unto nauseabondo, come se volessi impedire che venissero mai più srotolate.
Dopo di ciò, mi ritrovai a montare insieme ai sacerdoti una catapecchia in legno, che poggiava sopra una palude — una sorta di piccola chiesa.
Continuava a crollare. Fu proprio quel sacerdote che ci aveva mostrato l’immagini, a trovare un modo per farla stare in piedi, usando del filo di ferro.
Poi mi svegliai, stavolta per davvero.
Nonostante queste visioni attraversino il mio essere in cerca di una distillazione che possa rendere una tale sperienza più umana, non riesco fermare il flusso e farne a meno. È come se essere artisti significasse diventare una sorta di filtro. Un passaggio obbligato, che riesce a trafilare concetti, tralasciando quella misera condizione che fa parte di un’essere per lo più crudele e animale.
Trasformare tutto questo in qualcosa che valga la pena di essere guardato non è affatto semplice.
Anzi, per un artista diventa una missione senza scampo. Un destino scelto per te, al quale devi rispondere facendoti attraversare, come da una spada rovente, il tuo intero corpo. E in quell’esperienza di dolore e sofferenza, trovare un significato che valga la pena di essere vissuto.
Ho provato molte volte a voltare le spalle a questo destino, troppo duro da sopportare. Ho cercato di convincermi di non esserne all’altezza, di non avere la forza per quel tipo di sacrificio. Ma ogni volta mi ritrovo a rivivere lo stesso, incomprensibile dolore. Ho cercato di analizzare la cosa, e devo dire che non è soltanto una questione psicologica. Spesso mi sono chiesto se l’arte fosse una malattia. In realtà è una condizione. La questione sta in ciò che vedi, oggettivamente. E non vi è possibilità di negarlo.
Potremmo dire: una bella rogna.
Ma il dolore, attraverso la forma artistica, pacifica.
L’opera risana la ferita.
Il prezzo da pagare per essere un artista è molto alto. Non lo dico per presunzione, ma in conferma alle storie di artisti che sono rimasti soli, a ondeggiare in un’incomprensibile bellezza.
In memoria di coloro che hanno saputo trasformare la nostra miseria in qualcosa di veramente bello: Amedeo Modigliani, Vincent Van Gogh, Friedrich Hölderlin, Jack Kerouac, Diane Arbus, Lou Reed, Frida Kahlo, Jackson Pollock, Francesca Woodman, Andrej Tarkovskij…
_e Dio sa quanti altri potrei nominare…!