TERRA SANTA, TERRA DELLE ORIGINI.
“Riflessione di un uomo che guarda con occhi attoniti una cruda realtà.”
Israele. Una terra dove le grandi fedi monoteiste hanno avuto inizio, uno spazio sacro, un luogo in cui il nome di Abramo risuona nelle preghiere di ebrei, cristiani e musulmani, ma non come simbolo di unità, bensì come terreno conteso, eredità spezzata.
Da quel primo messaggio, forse semplice e limpido, si sono diramati tre racconti, tre popoli, tre mondi che sembrano incapaci di camminare insieme. Eppure, dicono tutti, discendiamo da quello stesso gesto di fede, da quella voce che chiamò nel deserto e ricevette in risposta un “Eccomi”.
Le colpe? Tante, troppe, stratificate nel tempo. Nessuno ne è innocente, la storia ce lo dice con chiarezza. Ma ciò che accade oggi a Gaza, ciò che vediamo accadere a occhi aperti, non ha paragoni. Non è più solo una questione di confini, non una guerra tra eserciti, ma un abisso aperto su corpi civili, il sangue dei bambini, i corpi senza nome… vite interrotte, negate.
Il dolore non ha più tempo, né giustificazione.
Questo dramma non può essere ridotto soltanto a una strategia militare.
È un fallimento umano.
È la perdita dell’altro come essere umano, come volto, come figura che possa ancora guardarci negli occhi e stringere una mano.
Ecco, forse la vera domanda, quella che brucia dentro, non è teorica, né storica, né politica.
È personale.
È questa:
Potrò mai tendere una mano sincera a un ebreo, un musulmano, un cristiano…?
Una mano senza paura, senza rancore. Solo una mano, nuda, con la giusta presa.
In una terra così profondamente segnata dalla presenza del divino,
mi sarà ancora possibile credere?
Perché se un Dio è realmente tale, non può essere piegato come bandiera di guerra.
Se un Dio è amore, non può essere invocato mentre si bombarda una scuola.
Se un Dio è giustizia, non può essere usato per giustificare il silenzio davanti al genocidio.
E se Dio abita davvero in mezzo a noi, dov’è adesso?
O meglio: dove siamo noi, quando diciamo di credergli?
Allora, forse, non è se possiamo ancora credere in Dio…
ma se possiamo ancora credere nell’uomo,
quando si arroga il diritto di parlare in suo nome.
In questa terra così sacra e così insanguinata,
non abbiamo bisogno che costruiscano muri,
ma di mani che li scavalchino.
E la vera fede, quella che resta, è negli atti.
Nelle parole che creano ponti.
Negli sguardi che non si distolgono.
Nelle immagini che documentano ciò che non deve più accadere.
“NEL NOME DI UNA FEDE”
In questa complicità…
mi chiedo ancora una volta: posso sentirmi cristiano?
Posso riconoscermi in un mondo occidentale
che ha eretto la sua identità sotto una croce?
Un Occidente che ora tace, giustifica, normalizza l’orrore,
fino a renderlo accettabile?
Fino a renderci complici?
Non ho modo di dubitare che il male esista.
Esiste, lo vediamo. Lo tocchiamo.
È lì, senza maschere.
Ma la misura distruttrice messa in atto da Israele oggi,
in nome di una “sicurezza” che non distingue più tra colpevoli e innocenti,
non ha più nulla di umano.
E questo è ciò che spaventa di più.
Un popolo che per primo dovrebbe riconoscere questa differenza.
Perché in quella terra martoriata,
piena di polvere, pianto, macerie e memorie…
lì è nata la mia fede.
Lì, in mezzo al sangue, ho creduto nella libertà come possibilità umana.
Una libertà non concessa da un potere,
ma accesa da uno sguardo.
Dal volto dell’altro.
Tutti abbiamo perso qualcosa nella storia.
Tutti siamo stati sfiorati dal terrore.
Tutti, chi prima chi dopo, abbiamo pianto i nostri morti.
Ma se sulla bilancia il diverso,
colui che non mi somiglia, colui che ha un altro Dio, un’altra lingua, un’altra casa,
non ha il peso della scoperta, del conoscere,
allora sì: abbiamo perso tutto.
Anche quella minima porzione di fede che ci resta.
Quando parliamo d’Occidente, parliamo sicuramente di cristianità.
Essere cristiano oggi cosa può significare?
Forse, è stare sotto quella croce,
con chi vi è stato,
e con chi viene ancora oggi crocifisso.