Volti in scena
“sorveglianza e il diritto di essere immagine”
Rubrica: Appunti di Sol
Durante un concerto dei Massive Attack, le telecamere hanno catturato i volti del pubblico, li hanno analizzati in tempo reale e li hanno proiettati sullo sfondo etichettando la loro professione: “medico”, “influencer”, “studente”. Non era solo spettacolo. Era una messa in scena dell’algoritmo. Un gesto artistico che non accompagna la musica, ma la trasforma in ambiente critico. Come se il suono, le luci, le scritte e i volti si fondessero in un’unica domanda: chi sei, quando sei letto, mappato, trascritto da una macchina? — “Forse potremmo vederla in questo modo: il volto proiettato sullo schermo non è il nostro volto. È una lettura algoritmica, una fiction statistica. Diventa qualcosa di nuovo, da decifrare, da interrogare — allora forse possiamo riprenderci l’immagine. Non per nasconderla. Ma per ponderare consapevolmente.”
I Massive Attack non fanno concerti. Fanno dispositivi immersivi. La loro musica non è solo da ascoltare — è da abitare. Ogni performance è una sinestesia: il ritmo pulsa insieme ai colori, le parole si fondono con le immagini, il palco diventa una griglia di senso. Non c’è separazione tra suono e visione, tra messaggio e mezzo. È un’arte che interroga, disturba, espone. Questa scelta non è nuova per il gruppo, noto per la sua tensione verso il controllo digitale e l’iper-individualismo. Come ha dichiarato Robert Del Naja, l’intento era denunciare l’ascesa del potere algoritmico, la distorsione sociale e la normalizzazione della sorveglianza. Il gesto non è solo provocazione, ma un atto di trasparenza radicale: mostrare il meccanismo, obbligare lo spettatore a vedersi attraverso l’occhio della macchina.
In questo senso, il concerto diventa un dispositivo di verità. Non c’è più spazio per l’illusione del privato: la nostra immagine è già in viaggio, etichettata, archiviata, interpretata. E allora, come dice Ricardo: “Il contenuto privato è una guerra persa. Si preoccupi chi ha da nascondersi… La vera battaglia è quella della sicurezza. Dalla serie: ‘se i miei dati devono passeggiare per il mondo a mia insaputa’ – ecco, devono essere tutelati. Tutto il resto è una presa per i fondelli.”
I Massive Attack non ci chiedono di nasconderci. Ci chiedono di vedere. Di vedere come siamo visti. Di vedere cosa succede quando il nostro volto diventa dato — e qui potremmo giocare la parola nel senso di dare: perché nel momento in cui il volto è catturato, analizzato, etichettato, non è più solo nostro. È già informazione, già valore, già parte di un sistema che lo utilizza, lo archivia, lo interpreta. Lo abbiamo ceduto, spesso senza saperlo, senza volerlo. E allora il gesto artistico diventa anche un gesto di restituzione: vedere ciò che abbiamo dato, per decidere se vogliamo continuare a farlo — e come.
Uno dei primi riferimenti su questo aspetto è stato il film di Wim Wenders, ‘Crimini invisibili’ del 1997, già lì si esplorava il tema della sorveglianza come atto quotidiano, silenzioso, normalizzato. I Massive Attack lo portano sul palco, lo rendono spettacolo, lo trasformano in marketing identitario. Ma è un marketing che non vende, bensì interroga: chi sei, quando sei visto da un algoritmo? Chi decide la tua etichetta?
In questo contesto, il libro di Francesco Amorosino ‘La fotografia nell’era dell’ipercontrollo’ è una lettura fondamentale. Amorosino, fotografo e autore, ci mostra come l’immagine sia passata da memoria a sorveglianza. Ogni foto è un archivio. Ogni volto è un’informazione. La fotografia non è più solo rappresentazione: è profilazione. E allora, come possiamo difendere il nostro volto? Come possiamo abitare l’immagine senza esserne schiacciati? “In questa ambiguità tecnologica, cosa è importante fare?” La risposta non è semplice. Ma forse possiamo cominciare da qui: la tecnologia non è neutra, e la sua esposizione può essere più potente del suo occultamento. Invece di nascondere il dispositivo, lo si mette in scena. Invece di rassicurare, si inquieta. È un modo per disinnescare la fiducia cieca nel digitale, per restituire allo spettatore la responsabilità dello sguardo — “il soggetto è proprio lo sguardo” e in qualche modo, ‘risvegliarsi’.