Studio dell’immagine
Dalla mano di Leonardo alla magia della camera ottica: esplorando come arte e scienza disegnano il nostro sguardo.
E così, tra linee tracciate a mano e luci catturate da lenti e specchi prospettici, ci si trova davanti a un orizzonte sospeso: dove il reale incontra l’illusione bidimensionale di un dipinto, e ogni dettaglio diventa storia, gesto e visione. Qui non si tratta solo di capire come l’immagine abbia avuto origine, ma di sentire cosa essa ci mostra: un cielo sospeso, una città che rinasce dalle tracce lasciate dall’uomo, un minuto di luce breve come un istante.
Questo è un disegno prospettico di Leonardo da Vinci: concetto piramidale, punto di fuga. Che cosa ci voleva per costruire una prospettiva senza la camera oscura? Bisognava avere una scienza avanzatissima della geometria, tracciare tutte le linee, sapere come ridurre in scala. Ma non era solo questo…! C’è un dromedario disegnato? Sì… e a Firenze c’erano dromedari? No. Allora Leonardo, rivolgendosi al committente:
«Cara Signoria, se vuole un quadro ambientato in Palestina con un dromedario, mi dovrà procurare i cammelli, vivi, perché io li devo disegnare dal vero».
Come se non bastasse, Leonardo doveva disegnare dal vivo le piante, le rocce, i muscoli dei cavalli, l’anatomia delle persone. E allora si mette lì a cercare e disegnare. Non esisteva una classificazione botanica: Leonardo “disegna e studia tutto”.
Nel Quattrocento non esisteva ancora una classificazione botanica. Leonardo da Vinci, come Albrecht Dürer in Germania e tutti i pittori prospettici più bravi di quel periodo, riempivano migliaia di fogli di copie dal vero: castagne, noci, mandorle, ecc. È l’inizio della scienza: “rappresentando l’immagine inizierai a conoscere”. L’ordine geometrico, matematico, fisico, chimico che c’è nella natura, e che passerà attraverso il disegno.
I funghi, ad esempio, erano circondati da superstizioni. Si mangiavano, ma erano temuti: infatti si chiamavano ‘fungus’ deriva dal termine latino ‘funus’ (“morte”), proprio perché alcuni funghi erano letali. L’amanita phalloides è molto simile all’amanita caesarea. In un’epoca in cui il cibo non era abbondante e bisognava pur mangiare, qualcuno ogni tanto ci lasciava le penne…
Disegno di un ramo di Noce – 1575 – Autore: Jacques Le Moyne de Morgues
Il filosofo Francesco Bacone afferma con chiarezza:
«La scienza e il potere umano coincidono, perché l’ignoranza della causa priva dell’effetto. La natura infatti non si vince se non ubbidendole; e ciò che nella contemplazione vale come causa, nell’operazione vale come regola».
Grandioso, “osservare per capire, capire per agire.”
Una regola quella di Bacone, che portò all’inizio dell’Ottocento, con la locomotiva a vapore Rocket, a rivoluzionare il sistema dei trasporti. Poi vennero i motori a carbone, a scoppio, fino all’elettrico e al nucleare.
Una parentesi non da poco è quella del XV secolo in Occidente, che ha visto nascere un’immagine speculare della realtà, quindi lo studio della natura, per arrivare a comprendere le forze che ci sono dentro. Gli artisti lavoravano in questa direzione. Leonardo, ad esempio, per realizzare a Milano l’Ultima Cena nella Basilica di Santa Maria delle Grazie, studiava i volti nella totale segretezza della notte, poiché era proibito farsi portare dai becchini i cadaveri di persone generalmente senza famiglia. Dai suoi disegni comprendiamo cosa facesse con quei corpi: venivano sezionati e studiati in ogni dettaglio. Per un secolo e mezzo, artisti come lui furono i primi botanici e i primi anatomisti.
Imitare la forma visibile significava vedere dal vero un dromedario, una palma, un fiore, una pietra, l’uomo, disegnarli e rappresentarli a colori.
Leonardo da Vinci – piede destro con linee di proporzione. →
Un fenomeno naturale
Con l’invenzione della prospettiva, come modo di rappresentare la realtà, tutti iniziano ad adoperare la camera oscura.
«un fenomeno naturale conosciuto da secoli»
un’esperienza vissuta dall’uomo in cui, trovandosi all’interno di una stanza buia, e se per caso questa stanza ha un piccolo foro, la luce che entra attraverso quel minuscolo buco proietta sul lato opposto l’immagine rovesciata di ciò che si trova all’esterno.
Insieme a questa preziosissima invenzione della prospettiva, nel 1609 arriva, con Galileo Galilei, l’obiettivo. Il buon Galileo conosceva le regole ottiche messe a punto da un altro grande fisico. Rispetto ad altri studiosi dell’epoca, Galileo disponeva di un laboratorio meccanico molto avanzato. In quel periodo, Venezia da secoli deteneva il monopolio degli specchi e del vetro – Murano –, ragione per cui ottenere una buona lente era relativamente facile, sia in Italia sia, in certi casi, in Olanda. Galileo, quindi, non inventa nulla di nuovo, ma riesce ad assemblare le lenti secondo le regole ottiche di Keplero, costruendo un teleobiettivo che lui chiamerà “perspicillum”, uno strumento per vedere attraverso, lontano nello spazio: con esso osserva la Luna e studia il cielo.
Cannocchiale galileiano Museo scienza e tecnologia Milano
All’epoca, nelle università d’Europa, nel solco degli insegnamenti di Aristotele, si affermava che il mondo è fatto di “terra”, con tutto ciò che la abita, ed è lì, — finita, mortale —, i “cieli”, invece, erano considerati perfetti, armonici, eterni, cristallini.
Ma Galileo, guardando attraverso il suo obiettivo, osa dire: non è così. E con quella semplice osservazione capovolge il mondo: dimostra che la Terra non è al centro del sistema solare. Da quel momento in poi, nulla sarà più come prima, verranno scoperte molte altre verità sul nostro universo.
I più grandi oppositori di Galileo
Saranno i professori d’«accademia», i teologi, difendevano un mondo fatto a loro immagine e somiglianza: un mondo in cui non esisteva la domanda, in cui non si ragionava né si rifletteva.
Galileo di fronte al Sant’Uffizio, dipinto di Joseph-Nicolas Robert-Fleury 1847
Già nel 1620 in Europa giravano camere oscure con obiettivo, chiamate “camere ottiche”, che saranno esattamente, un paio di secoli più tardi, le macchine fotografiche. Quegli strumenti avevano già tutto: l’ottica calcolata secondo le regole di Galileo, le diverse lunghezze focali – grandangolo, teleobiettivo, ottica normale – lo specchio a 45°, lo schermo di visione in vetro smerigliato, su cui il pittore appoggiava la carta oleata per disegnare in trasparenza. Questo stesso strumento, due secoli più tardi, sarà utilizzato per realizzare le prime immagini di Daguerre e Fox Talbot.
Sempre nello stesso secolo ci troviamo in Olanda, con Jan Vermeer e la sua “Veduta di Delft”. Si capisce subito che c’è una differenza abissale con Giotto: le persone non hanno l’aureola, no. Vermeer rappresenta ciò che vedono i suoi occhi.
Non ci sono aureole; e se ci sono, “appartengono a un altro ordine di rappresentazione”.
Una costruzione mirabile: la spiaggia, il canale, le barche, la facciata del porto. Tutta la prima parte del dipinto è in ombra, poi là dietro — dov’è il campanile — una botta di luce. Da dove arriva? Certamente: vi è una nuvola grigia nella parte superiore, poi si apre uno spiraglio celestino in mezzo, ed ecco la luce.
Vermeer avrà dovuto fare molto in fretta: questa è una scena che cambia in meno di un minuto, anzi, in pochi secondi. A causa del vento, le nuvole si spostano rapidissimamente, modificando ogni percezione del paesaggio. Quindi quella luce, quanto può durare?
Eppure Vermeer, se vogliamo dargli un lasso di tempo realistico, avrà impiegato all’incirca sei mesi per realizzare il quadro: il disegno di fondo, la preparazione dei colori a olio… e poi deve pur mangiare, dormire, pagare l’affitto. Insomma, sei mesi. E quanto costava questo quadro? Dieci talenti d’oro, anzi quindici. «Lo vuoi?» — «No!»
Vermeer ritrae lo spazio prospettico, si vede benissimo, perfettamente. Ma, dovendo ritrarre lo spazio prospettico, deve metterci anche il cosiddetto tempo. E qual è il tempo in questo dipinto? Non il blu perfetto del Beato Angelico, no. Né il nero di Giotto, manco per idea. Ci mette una nuvola, che per secoli e secoli — e millenni — resterà “la Nuvola”.
Prova tu a dipingere una nuvola con quell’identità, una forma evanescente che duri per millenni.
Il periodo di Vermeer, la metà del Seicento olandese, era un tempo di grande prosperità commerciale per i Paesi Bassi, ma non garantiva affatto una vita agiata agli artisti. Fare il pittore significava vivere tra incertezze, con pochi committenti e lunghi mesi di lavoro per una sola tela, e con guadagni spesso irrisori. Ci voleva grande umiltà, una dedizione votata al sacrificio, un amore quasi religioso per l’arte. Non vivevano certo tra le comodità, ma nella fatica e nella concentrazione trovavano la loro grandezza.
Un altro esempio di Vermeer: “Allegoria della Pittura”. Primo piano: la tenda, la sedia, il pavimento, la maschera sul tavolo, il pittore di spalle, la modella, e dietro come sfondo la carta geografica.
L’uomo europeo, con gli studi trigonometrici e gli strumenti prospettici, era già in grado, alla fine del Cinquecento, di rappresentare il mondo: il mappamondo e la carta geografica. Un’operazione molto più difficile della prospettiva. Prova a mettere una sfera su un piano e capirai quanto è complicato realizzare una carta geografica. Ma quanto è necessario per andare in giro per il mondo, per raggiungere la Cina e tornare con il tuo carico di seta, di spezie, di avorio.
Andare e tornare dall’America. Dicono: «I vichinghi sono arrivati, perfetto, bravi». Ma il problema non è andare: è tornare. Ho sbaglio? Ho capito che si può andare e arrivare da qualche parte, ma il problema non è quello di partire — è trovare la via del ritorno, o no?
Come dire: l’uomo europeo, con il primo satellite, lo “Sputnik 1”, fu il primo satellite lanciato in orbita il 4 ottobre 1957 dall’Unione Sovietica. Successivamente le prime fotografie della Terra verranno raccolte da altri satelliti, come il “Lunar Orbiter 1”, il primo satellite lunare con lo scopo di ottenere immagini che permettessero atterraggi per le missioni successive, come quella dell’Apollo.
Oggi non ci pensiamo, ma grazie a quei satelliti siamo in grado di sapere le condizioni meteo. Sei seduto sul divano e ti domandi: «Chissà che tempo farà domani?» Guardi il televisore, il telefono, il computer… o lo chiedi alla vocina automatica, l’“AI”, che ti risponde: «Il tempo di domani sarà parzialmente sereno con nuvole sparse».
Capite l’informazione: con il satellite la realtà virtuale diventa immagine. Vedi le nuvole, il cielo, la pioggia, il sole — tutto, stando comodamente seduto sul divano. La previsione diventa rappresentazione, e sai già come sarà domani il cielo sopra Delft.
Il mattino seguente ti prepari per uscire e, dopo un po’ che sei in giro, ti ritrovi una nuvola grigia sopra la testa. In mezzo, uno spiraglio di luce attraversa il cielo. “Allunghi la mano, prendi la macchina fotografica e clic.”
Ce n’è voluto di tempo perché quel semplice gesto del dito potesse catturare un’immagine.
Ed ecco il punto: non sono più sei mesi di lavorazione come per i quadri di Vermeer. Oggi basta un clic, un istante, un niente. Chiunque può farlo — eppure, dietro quel gesto minimo, ci sono secoli di studio, di luce, di geometria, di occhi allenati a vedere. La dedizione non è cambiata, solo la forma. Anche oggi, per campare d’arte, non basta un dito: serve ancora la stessa passione di allora, e forse più.
Vermeer, con l’ausilio della ‘camera ottica’ e dell’obiettivo, ti rappresenta il “cielo”… ed è ancora lì.
Allo stesso modo Canaletto, a Venezia, in “Il Ponte dell’Arsenale” (dipinto del 1730-1731), aveva la ‘camera ottica’.
Canaletto potrà così andare in giro per Venezia e disegnare con una camera oscura portatile, dotata di ottica, specchio e vetro smerigliato, su cui ricalcare l’immagine riflessa. Un’evoluzione che permetteva, anche a chi privo di conoscenza della geometria o della prospettiva, di poter riprodurre disegni della realtà.
Questo fenomeno, così naturale, era conosciuto da tutte le culture del mondo. Eppure, nessuna lo adoperò per creare un’immagine: non avevano il concetto stesso di immagine prospettica, di immagine speculare della realtà visibile. Anzi, in molte culture del mondo, un procedimento del genere sarebbe stato addirittura vietato.
Era un metodo diverso da quello iniziale di Leonardo da Vinci, con tutte le misure e le linee. Un nuovo strumento. E già allora c’erano alcuni critici che dicevano:
— Canaletto non è un bravo pittore.
— Perché non è bravo?
— Non è come Leonardo: lui era un genio, faceva tutte le prospettive disegnandole a mano. Non come Canaletto che aveva l’ausilio della “camera ottica”.
Ha ragione il critico?
Ma scusami, a te cosa interessa come ho ottenuto l’immagine?
Raccolti diffusi da G. Chiaramonte
Bernardo Bellotto Veduta di Varsavia con il fiume Vistola dal sobborgo di Praga, 1770
Quando, nel 1945, l’Armata Russa riuscì a liberare Varsavia dall’occupazione tedesca, la città era ormai con l’85% degli edifici completamente distrutto. Il castello, come la maggior parte degli edifici più importanti, era raso al suolo. «Le cronache raccontano che il muro più alto del castello misurasse appena un metro». La ricostruzione è stata possibile con una precisione impressionante grazie ai dipinti di Bernardo Bellotto, che riportano in scala tutti i particolari della città di Varsavia, “perfino le tende alle finestre”.
Dettaglio di un altro dipinto di Bellotto: un cane che abbaia, la nonna, il bambino, gli operai, l’architetto che disegna il suo progetto, il capo cantieri, il falegname… gli operai che bestemmiano perché lavorano sotto al sole, la signora pure perché è caduta. “E se ti avvicini al dipinto, la senti strillare in tedesco”. Tutto sotto una luce dell’alba, radente, di taglio. Una luce che dura pochissimo: un minuto, e l’hai persa. Quella profondità prospettica l’ottiene in quei pochi secondi.
Un tempo istantaneo, mentre a realizzarla ci ha messo mesi, per catturare una veduta da un punto di vista… in un solo secondo.
Dresda dalla riva destra dell’Elba sopra il ponte di Augusto, by Bernardo Bellotto